Vuoi imparare la geografia? Bevi il vino!

La paura più grande per i corsisti che si apprestano ad affrontare l’esame finale e diventare finalmente sommelier è quella di non ricordarsi le centinaia di denominazioni (DOCG e DOC italiane, oltre a quelle straniere) esistenti. Solo in Italia esistono più di 70 DOCG e oltre 300 DOC. Il neo-sommelier deve – deve – conoscerle tutte. E soprattutto deve essere in grado di collocarle geograficamente.

In linea di massima tutti conosciamo la geografia della nostra zona di origine, o della zona in cui viviamo o abbiamo vissuto, o che abbiamo visitato con cura. Ma, per quanto ampio possa essere il bagaglio di mappe memorizzate nella nostra mente, queste saranno sempre una piccola parte di un puzzle da migliaia di pezzi.

La geografia è una materia affascinante per molte persone ma dalla quale parecchie altre fuggono, quasi intimorite da nomi e numeri, nonché da un’innata incapacità di orientarsi anche sul balcone di casa propria.

Io rientro tra coloro che hanno sempre associato la geografia all’idea di viaggiare, di esplorare mondi nuovi, di arrivare in luoghi sconosciuti e doversela cavare di fronte a difficoltà logistiche; crescendo poi, i pensieri hanno virato anche sul filosofico, ma questo è un altro film.

Ricordo, da bambino, quando le dita scorrevano lungo le linee colorate sulle pagine degli atlanti stradali, la mente creava viaggi immaginari in luoghi reali: le montagne, i confini tra Stati, le città, i mari.

Una volta cresciuto, quegli stessi viaggi li ho fatti davvero, con un’auto, in moto o altri mezzi. E reputo una fortuna averne fatti diversi quando ancora la tecnologia attuale non aveva mandato in pensione gli atlanti stradali, marcando il confine tra la necessità di comprendere dove ci si trova e la capacità di seguire una linea su un display. Di quei viaggi ricordo quasi ogni paese attraversato, valli e montagne, spiagge e campagne.

Fin dall’inizio dei miei studi nel mondo del vino, mi è sempre stato fatto notare quanto la geografia sia importante per un sommelier, e lo stesso faccio io oggi con i miei studenti, ai quali non mi stanco di ripeterlo.

Come in qualsiasi materia, raccontare qualcosa che si è toccato con mano è sempre più facile e preciso rispetto a qualcosa di semplicemente immaginato nella propria testa. Con il vino accade esattamente lo stesso. L’elenco di denominazioni di origine di una regione non è più una mera lista di nomi privi di significato, ma diventa un viaggio tra i vigneti, tra i borghi in cui i vini si producono; si visualizzano le colline con la nebbia mattutina, le cime più alte che riparano dai venti freddi, i laghi che ne mitigano le temperature invernali e mille altre infinite sfumature.

É noto che un’immagine possa essere molto più potente di tante parole e lo stesso funziona per la nostra memoria. Visualizzare anche solo una mappa e collocare dei nomi nel loro spazio permette alla nostra mente di creare dei collegamenti quasi involontari, creando l’anello di congiunzione cui non avevamo pensato prima.

Ricordare le zone di produzione dei vitigni Nebbiolo o Vermentino è decisamente più semplice dando un veloce sguardo ad una mappa: le zone risultano virtualmente (o addirittura fisicamente) collegate tra loro, quindi risulta evidente il perché questi vitigni si trovino proprio in quelle zone e non in altre. E prima ancora di averci pensato, la nostra mente avrà già individuato anche punti di congiunzione relativi alle tipologie di vini prodotti, alle differenze climatiche e molto altro.

Un altro esempio forse banale riguarda le DOC interregionali. Pare scontato che avere un’idea su come si sviluppano le province di Brescia e Verona possa essere d’aiuto per individuare le denominazioni condivise tra più regioni, ma in situazione di stress da esame e con innumerevoli altre informazioni da ricordare, può davvero fare la differenza.

Gli esempi su come la geografia possa aiutare lo studio in materia di vino potrebbero essere infiniti. L’idea di base è molto semplice: maggiori informazioni si hanno su una materia, più semplice diventa ricordarne anche solo una parte. E da più punti di vista affrontiamo una materia, maggiore sarà la sua comprensione. Se reggessimo un mappamondo in mano, a prescindere dall’area che staremo fissando, sapremo cosa c’è sul lato opposto.

La geografia ci permette di osservare il mondo del vino da un punto di vista alternativo e questo alleggerisce il carico di informazioni specializzate che stiamo cercando di memorizzare. E diventa un alleato ancor più prezioso quando ci dedichiamo allo studio di zone in cui non abbiamo ancora viaggiato. In quest’ultimo caso poi, alzi la mano chi può dire di non sentire lo stimolo di voler partire, soprattutto dopo questo lungo periodo di mancati viaggi.

Se quindi la geografia è utile ai fini dello studio, non da meno è il benefico effetto sulla nostra voglia di scoprire, esplorare, conoscere. Quindi, apriamo un atlante, subito!

Manuale semiserio di sopravvivenza alla carta dei vini.

Scegliere il vino al ristorante è meno facile di quanto possa sembrare, ma esistono alcuni semplici trucchi per uscirne indenni.

Negli ultimi 12 mesi il mondo intero ha accumulato una smodata quantità di cene rinviate a data da destinarsi. Cene tra amici, tra parenti, cene di lavoro, cene con futuri amori.

Prima o poi riusciremo a sederci nuovamente a tavola e gustarci a pieno una bella cena, senza preoccuparci di nulla, se non di star bene.

L’unico intoppo che può mettersi tra noi e la serata perfetta è la scelta del vino. Non tanto per la bottiglia in sé, ma per l’immagine che in quel momento daremo di noi. Questo ovviamente vale per cene di lavoro e ancor più per una cena galante, magari addirittura un primo appuntamento…

Le carte dei vini di alcuni ristoranti incutono timore, a volte una sorta di imbarazzo, altre un certo timore reverenziale per la quantità di bottiglie proposte.

Seduti (si spera) in buona compagnia, se la lista dei piatti provoca una piacevole incertezza perché si vorrebbe provare un po’ di tutto, la lista dei vini sembra invece studiata da psicologi in cerca di cavie da analizzare mentre cercano di sopravvivere all’ansia dovuta alla ricerca del vino “giusto”.

Ma qual è il vino “giusto”? I criteri di scelta sono parecchi, non fidatevi degli esperti, loro vi diranno sempre che il vino va abbinato alle pietanze! Da un punto di vista puramente accademico l’abbinamento al cibo è sicuramente il criterio più corretto. E se invece volessimo spendere poco, oppure provare un vino per noi nuovo, o ancora se volessimo stupire i nostri commensali o far colpo su un futuro amore?

I ristoranti con una carta dei vini ricercata offrono ai propri clienti una vasta scelta di prodotti, spesso proponendo produttori e vini non facilmente reperibili dal consumatore privato, quindi riservati al settore ristorazione. Ne deriva una carta dei vini che incuriosisce l’appassionato, ma in grado di spiazzare il cliente meno abituato agli sport estremi.

Da un’inaccurata e personalissima indagine statistica di numerosi anni e innumerevoli cantonate – sia in termini di prezzo pagato che di qualità del vino – emerge che il criterio più utilizzato per scegliere un vino da una lista di emeriti sconosciuti sia il prezzo medio: esclusi i vini più costosi (cosa? 175 euro per uno spumante??) e quelli più economici (sai che figuraccia con i miei commensali e con il cameriere…), si sta nel mezzo.

Una volta identificato un range di prezzo, il secondo criterio scientificamente provato è quello della denominazione più o meno altisonante, che in qualche modo riconduca il pensiero a denominazioni più esclusive.

Non è un caso se in anni recenti vini come Vino Nobile di Montepulciano DOCG o Morellino di Scansano DOCG siano stati tra i vini più conosciuti e acquistati dagli italiani, tanto nella grande distribuzione che nei ristoranti. Il nome rimanda a territori di produzione di vini di altissima qualità, ad una terra di chiara vocazione vinicola; e poi, vuoi mettere la scelta accompagnata da un sonoro “ecco, prendiamo questo, gran vino!”, con alte possibilità di approvazione da parte dei nostri commensali, ai quali il nome suonerà esattamente come a noi.

Restando invece su un atteggiamento più conservativo, una volta ristretto il nostro ambito di ricerca il grosso è fatto e rimarranno, nella peggiore delle ipotesi, una manciata di etichette tra cui scegliere. A quel punto potremo permetterci di ostentare coraggio e propensione al rischio con un bel “questo non lo conosco, proviamolo!” – dando l’impressione di conoscere gli altri (tanto, chi lo scoprirà mai che non li abbiamo mai sentiti prima?).

Restringere la gamma di proposte ci permette anche di coinvolgere con sicurezza il cameriere/sommelier, chiedendo un consiglio tra le poche bottiglie selezionate, sicuri di non rischiare salti nel vuoto sul fronte prezzo dai quali sarebbe imbarazzante uscirne indenni.

Esiste ovviamente anche un approccio contrario: puntare direttamente ai “nomi” per essere sicuri di far centro. Nomi famosi, denominazioni rinomate, vini prestigiosi. L’abbinamento potrebbe non essere dei migliori ma in fondo che importa? Un Brunello, un Barolo o un Amarone a tavola non hanno mai fatto storcere il naso a nessuno, anzi vi sfido a trovare qualcuno che possa lamentarsi!

Scegliendo una bottiglia di alto livello dovete però conoscere lo scopo delle bottiglie più costose nella lista vini: la loro presenza non serve ad ampliare la scelta per il cliente, ma dare fama e prestigio al ristorante che le propone.

La presenza di bottiglie molto costose giustifica un ritocco verso l’alto dell’intera gamma di vini offerti, in particolare elevando la parte bassa del listino. Scegliendo un vino “entry-level” aspettatevi quindi di pagarlo un po’ di più se nella stessa carta dei vini sono presenti bottiglie molto costose.

Sia chiaro, il possibile rincaro dei vini non è solo una mera questione di utili, ma si basa anche su costi più elevati dovuti proprio alla presenza delle bottiglie top di gamma.

Il dilemma “non conosco nessun vino – troppo costoso – troppo economico – voglio fare bella figura” non ha nessuna formula che conduca ad una buona soluzione. Se state cercando di risolverlo tenendo ben alta la carta dei vini davanti a voi per nascondere gli occhi alla vista dei vostri commensali dovete fare una scelta.

Potete decidere di dichiarare candidamente di non conoscere nessun vino e quindi puntare a un vino di prezzo medio-basso, in modo da limitare i danni (ma pur sempre provando qualcosa di nuovo), oppure chiedere aiuto al cameriere/sommelier ponendo dei chiari limiti al vostro budget.

Chiedere consiglio al sommelier, individuando un range di prezzi, non vi farà perdere punti ai suoi occhi ma, anzi, consentirà al sommelier di consigliarvi al meglio, selezionando per voi il vino più indicato e sollevando voi dal rischio di una possibile scelta errata (e magari costosa).

Volete scegliere un vino tra i più economici durante una cena galante? Facile! Sostenete la scelta come un’attenta analisi del rapporto qualità/prezzo del vino scelto! “Mai trovato questo vino a un prezzo così, avranno sbagliato…prendiamolo, ti piacerà”!

Ma ricordatevi la regola numero uno in questi casi: fatela facile, se vi state facendo mille domande davanti ad una carta dei vini perché non sapete che pesci prendere, è molto probabile che il vino non sia la vostra prima passione – non ancora almeno – quindi anche le vostre aspettative non avranno la puzza sotto il naso di un appassionato. Scegliete quindi con leggerezza, siete al ristorante per godervi la serata e la compagnia, il vino farà solo da contorno. Trattatelo come tale.

Tu che ne capisci, mi consigli un buon vino?

Questa è probabilmente la domanda più ricorrente che ti faranno le persone appena scoperta la tua conoscenza in materia di vino, indipendentemente dal fatto che tu sia un aspirante sommelier alla sua prima lezione del corso, un super-esperto di fama mondiale o un navigato bevitore con decenni di esperienza.

Personalmente, quando mi viene rivolta questa domanda, ho una doppia reazione. Da un lato ne sono felice perché la interpreto come una positiva curiosità da parte della persona che mi chiede un consiglio, una ricerca di nuovi prodotti per innalzare il proprio piacere; dall’altro temo spesso che la domanda sia solo un naturale proseguimento della chiacchierata e i miei suggerimenti finiranno per perdersi.

Riflettendo però, che importa quale sia lo scopo della domanda? In fin dei conti il vino, come tanti piaceri della vita, ha un fine personale e, in quanto tale, non può essere giudicato, quindi ben vengano le domande!

Quindi supponiamo che la domanda sia genuina, sia posta da una persona realmente interessata a scoprire un nuovo vino per ampliare il proprio bagaglio gustativo.

Se la domanda è di facile comprensione, la risposta non è necessariamente immediata. Premesso che il “buono” è chiaramente soggettivo, la difficoltà nel rispondere sta nell’inquadrare il palato e la sensibilità della persona che mi ha chiesto il consiglio.

Mi capita spesso di assistere a scene in cui qualcuno consiglia ad altre persone un vino e questo rientra nel bello del vino, la condivisione. Tuttavia troppo spesso il consiglio è basato esclusivamente sul proprio giudizio, su ciò che è piaciuto a chi sta suggerendo il vino. Le esigenze di chi pone la domanda non vengono solitamente prese in considerazione, partendo dal presupposto che se un vino é buono, é buono per tutti!

Volendo dare una risposta che abbia un senso, occorre innanzitutto capire le abitudini in fatto di vino della persona che abbiamo di fronte, la sua preferenza per determinate tipologie di vino, la sua capacità di comprensione di determinate differenze tra diversi vini ed altri elementi. Occorre, inoltre e soprattutto, capire lo scopo dell’acquisto: soddisfazione personale, cena tra amici, regalo, mille altre ragioni?

Questa rapida analisi richiede inoltre la capacità di interpretare le indicazioni della persona che, qualora non fosse “allenato” al gergo enologico, facilmente saranno poco tecniche e molto soggettive.

Recentemente, ad esempio, ho regalato ad un amico una bottiglia di un vino bianco con qualche anno sulle spalle per farglielo assaggiare ed eventualmente venderlo nel suo locale. Il vino aveva caratteristiche olfattive e gustative molto particolari, chiaramente figlie dell’evoluzione in bottiglia nonché del processo di vinificazione. Nonostante le premesse per spiegare il vino e preparare l’amico ad un gusto cui ero certo non fosse abituato, lo stesso è stato bollato seccamente come ossidato e vecchio (garantisco e garantiscono altre degustazioni, non lo era!). Io adoro quel vino!

La difficoltà nel consigliare un vino buono è quindi quella di collegare il vino con la persona, creare fra loro un legame, una sorta di appuntamento al buio. Bisogna essere l’amico che fa incontrare due persone, sperando si piacciano ed eventualmente si innamorino l’uno dell’altra/o. Non è un esercizio banale né semplice e nella migliore delle ipotesi si può regalare un’emozione; ma si può anche rischiare di consegnare una delusione perché non si è stati in grado di comprendere i bisogni dell’altra persona o perché, semplicemente, non si hanno a disposizione gli strumenti giusti per farlo.

Quindi se mi chiedete un consiglio, aspettatevi un piccolo interrogatorio! Fatto per il piacere di condividere con voi qualche piacevole esperienza. E diffidate da chi risponde alla vostra domanda in un istante, perché darebbe quella risposta a chiunque oppure risponde pensando ai propri gusti invece che ai vostri… Dopotutto il vino è un mezzo per far incontrare la gente, quindi perché sprecare un’occasione per conoscersi un po’?

Gli orange wines sono una moda passeggera?

Moda, tendenza, scoperta, ri-scoperta, innovazione, rinnovo delle tradizioni. Chiamatela come volete, ma quel che è certo è che gli Orange Wines sono oggi diventati parte integrante del mondo vinicolo internazionale e trovano il loro epicentro proprio nella nostra Italia.

Per i frequentatori meno assidui del reparto sperimentazione nel bicchiere, gli orange wines sono sostanzialmente (e non me ne vogliano i più esperti per l’estrema semplificazione) dei vini bianchi che subiscono una vinificazione simile ai quella dei vini rossi, con prolungate macerazioni e lunghi affinamenti, spesso a contatto con l’ossigeno. Queste tecniche regalano ai vini il tipico colore che va dall’aranciato all’ambrato,  oltre ad un ventaglio di profumi molto particolare ed estremamente variegato.

Tecnicamente parlando, gli orange wines non sono un’invenzione recente, tutt’altro. Questa tipologia di vinificazione ripercorre le antiche tecniche di produzione del vino in Georgia e Armenia in uso già migliaia (migliaia!) di anni fa. In epoca recente sono state poi riprese nella zona di confine tra Italia e Slovenia, attirando poi l’attenzione di produttori in tutto il mondo.

Quando un prodotto cavalca l’onda del successo diviene una moda e, come tutte le mode, la sua vita è simile ad una parabola, con una fase di crescita, una di stabilità e, infine, un declino. Vero. Ma non del tutto corretto. Qualunque prodotto, in tutti i settori, vive dei periodi di maggiore o minore successo, brevi o lunghi che siano. Il limite nel considerare quello degli orange wines un fenomeno passeggero, sta nel pensiero che questi siano una moderna invenzione, il che li relega quasi più ad una operazione di marketing che ad altro. La realtà è che questi vini sono sempre esistiti, semplicemente si sono persi la voglia e l’interesse di produrli per un tempo infinito. Ora sono tornati e stanno finalmente riscuotendo l’interesse che meritano.

Un elemento che allontana gli orange wines dal concetto di moda passeggera è la sperimentazione. Questa è alla base di questa tipologia di vini e riguarda vitigni utilizzati, tempi di macerazione, tempi di affinamento, verifica della longevità e tutto quanto concerne in generale le tecniche di produzione. Se alcuni di questi vini hanno ormai consolidato una posizione nel mercato, grazie a pochi lungimiranti produttori, per molti altri siamo ancora in una fase di sperimentazione. Ho sentito recentemente affermazioni del tipo “non è più tempo di sperimentare, ormai il fenomeno è definito e il mercato è stanco” e non sono per nulla d’accordo.

La sperimentazione nel mondo del vino è un’attività quotidiana, perenne, fondamentale per il progresso e l’innovazione dei prodotti. Si deve alla sperimentazione la sempre maggior qualità generale dei vini che arrivano sul mercato e la solidità commerciale di vini divenuti icone (dei quali però si dà spesso per scontata l’esistenza, senza riflettere sul fatto che anche questi sono frutto di sperimentazioni). La sperimentazione fa parte del DNA dei produttori e di tutti coloro che, a vario titolo, sono attivi nel mercato del vino.

Certo, è più immediato identificare il mondo degli orange wines come mondo sperimentale dal momento che, agli occhi dei più, questi sono un’invenzione recente rispetto a vini bianchi o rossi ormai affermati. Ma, quando negli anni ’80 del secolo scorso nelle Langhe un gruppo di produttori iniziò ad usare le barrique al posto delle tradizionali botti grandi, non era forse sperimentazione? Quello del Barolo è solo uno degli innumerevoli esempi che potremmo citare a tal proposito.

A mio giudizio gli orange wines non finiranno sugli scaffali più nascosti delle enoteche ma convivranno armonicamente con le altre tipologie di vini, anche nelle carte dei vini dei ristoranti (al momento ancora scarseggiano). Certamente, il periodo di maggiore visibilità mediatica è destinato a diminuire progressivamente – ma questo è un processo comune a tutti i “nuovi” prodotti – mentre si consoliderà la loro presenza nella mente del consumatore, che è ancora nella fase della loro scoperta e comprensione. Tale consolidamento deve però essere supportato dai professionisti, in grado di comunicare la reale entità del fenomeno, senza relegarlo a una moda passeggera.

Come in tutti gli ambiti della vita, la sperimentazione è il tassello fondamentale del progresso e, spinta dalla curiosità e dalla ricerca, porta all’individuazione di nuove strade da percorrere, ognuna delle quali riserva sempre delle sorprese e ci guida alla scoperta di nuove esperienze.

Lo senti anche tu questo odore di sandalo bagnato da acqua di lago, al tramonto, in una calda serata di fine luglio?

Diciamolo, osservare un esperto che analizza un vino davanti a un pubblico ha del fascino. La facilità con cui osserva, annusa, assaggia il vino e ne racconta le caratteristiche, i profumi, il gusto, fanno pendere i presenti dalle sue labbra.

Il momento del racconto dei profumi è, anche da solo, uno spettacolo a sé. La capacità e la rapidità con cui l’esperto li individua hanno un che di irraggiungibile, una sicurezza cui tutti noi vorremmo arrivare e, soprattutto, una quantità di profumi conosciuti da far invidia a un maestro profumiere!

Nessuno può restare indifferente alla quantità di profumi che possono riscontrarsi in un bicchiere di vino e, soprattutto, alla quantità di profumi totalmente sconosciuti alla maggioranza del pubblico. Nomi noti, forse, ma che il nostro cervello non sarebbe assolutamente in grado di riconoscere né, tantomeno, di ricordare.

Assistere ad una degustazione effettuata da un professionista può essere un evento traumatico per un aspirante sommelier. Il primo pensiero é “voglio essere così”, “lui sì che ne sa”! E allora ci provi, ti tuffi nel bicchiere alla ricerca di profumi mai scoperti prima…e invece trovi il nulla! Non un fiore, non un frutto… I complessi di inferiorità inizieranno a palesarsi e saranno i nostri migliori amici tutte le volte che ci confronteremo con qualcuno più preparato, sia un altro sommelier, un produttore, un enologo. O con qualcuno che pensiamo sia più preparato di noi… Ogni qualvolta saremo chiamati a commentare un vino davanti a qualcun altro, il nostro olfatto percepirà dei profumi, il cervello ne riconoscerà una frazione, la bocca ne pronuncerà giusto un paio, per non rischiare di dire castronerie.

Allora come hanno fatto questi guru del naso a imparare tutti questi profumi? Ma soprattutto, davvero sono in grado di distinguere quelle infinite sfumature tra il gelsomino indiano, quello spagnolo e quello cinese? Forse sì. Forse no. Forse non lo sapremo mai perché noi stessi non saremo mai in grado di distinguerli, né tantomeno di ricordarceli.

Sicuramente hanno studiato e fatto molta, moltissima pratica, annusando tutto quanto capitasse a portata di naso, continuando a mantenere l’allenamento, che è fondamentale. Ma nella vita pratica, parlando di fronte ad una platea, si ha spesso la sensazione che ci sia la tendenza eccessiva alla ricerca di termini innovativi, non motivata da un lato pratico, sostanzialmente inutile, fine solo se stessa, al proprio ego. Se esistesse un campionato mondiale per la stravaganza dei profumi identificati in un bicchiere, la classifica dei partecipanti cambierebbe ogni giorno.

Quindi? Tutte fandonie? Tutta scena, invenzione, spettacolo? Assolutamente no. Ogni vino è un catalogo ricco di profumi dei più svariati generi, ma non tutti siamo in grado di rilevarli nella loro totalità, per ragioni di studio, esperienza e differenze fisiologiche. Una parte di spettacolo però c’è e, a volte, questo mette in secondo piano le abilità tecniche del degustatore, lo avvicina più ad un anchor-man che non a un esperto di vino, al giullare di corte piuttosto che a qualcuno che dedica parecchie energie per prepararsi. Quando questo accade, tutto quanto ruota attorno a quel vino, perde di rispettabilità e professionalità da parte dei più. A volte, basta semplicemente non esagerare, come in tutto.

Ma poi, in fondo, a chi davvero importa di scovare i più improbabili profumi in un bicchiere di vino? Le uniche cose che dovremmo cercare sono il divertimento e l’allegria!

Valpolicella Classico DOC 2019 – Speri

Se anche voi appartenete a quella schiera di persone che considerano il Valpolicella Classico come il fratello minore dell’Amarone, ecco per voi un vino che sarà la prova definitiva che vi state sbagliando e che, benché le varietà d’uva utilizzate siano le stesse, i due prodotti finali sono ben lungi dall’essere fratelli.

C’è in effetti un preciso filo conduttore che caratterizza tutti i vini della famiglia Speri: la pulizia, la linearità con cui il vino si presenta al naso e al palato, l’esaltazione delle caratteristiche di ogni vitigno utilizzato e la capacità di mantenere uno stile tradizionale senza cedere alle mode.

Questo Valpolicella Classico é un perfetto esempio di come tradizione, viticoltura biologica e amore per il territorio possano unirsi per regalare sorrisi. Sì, sorrisi! Perché questo é un vino allegro, con profumi che rimandano alla ciliegia e ai fiori rossi, da bere in buona compagnia, in relax, prima o durante una cena. Non mettetelo in cantina, bevetelo da giovane, assaporatene l’allegria e la spensieratezza della sua gioventù.

Il mio é finito in fretta, ha accompagnato un aperitivo facile e si è poi seduto con me per una cena sul divano, un piatto di pasta con sugo e fagioli e una commedia in tv. Che bella serata!

Io il Tavernello non lo bevo, o forse si…

C’è un gioco che mi piace fare sempre con i partecipanti a un corso per aspiranti sommelier, ma anche ad eventi ai quali siano presenti degli auto-proclamatosi intenditori di vino.

Non si può fare a meno di notare che la maggior parte di queste persone – fortunatamente non tutte! – fin dall’inizio dei loro studi/conoscenza inizino a snobbare i vini più economici, in Italia su tutti il celebre Tavernello, giudicandolo un vino pessimo, imbevibile, acqua sporca, non adatta alle loro sensibili papille gustative.

Al di là di gusti personali, quello che mi fa sorridere, ma anche riflettere, é che i giudizi sono semplicemente basati sul fatto che costa pochissimo e che é confezionato in TetraPak il che, ai loro occhi, é sufficiente per ritenere che un vino faccia schifo.

Ma quanti di questi aspiranti sommelier / intenditori lo hanno realmente assaggiato? Pochi. Molto pochi. Diciamocelo, a chi piace il vino sicuramente non viene in mente di comprare un vino in TetraPak, scegliendo piuttosto vini economici ma pur sempre in bottiglia. Ma, per chi studia o per chi si ritiene un intenditore, anche questi vini dovrebbero rientrare nella lista di vini da provare; sono pur sempre sul mercato e, in quanto tali, devono essere conosciuti. Senza tralasciare il fatto che sono tanto, tanto venduti.

La prima volta che feci assaggiare un Tavernello ad un corso per aspiranti sommelier di primo livello, rigorosamente alla cieca, lo presentai in una batteria con altri 4 vini. Chiesi ai partecipanti di compilare le schede di degustazione e poi di commentarle ad alta voce. Infine chiesi loro di esprimere un giudizio personale su quale vino avessero preferito, in generale. Furono diversi quelli che ritennero il Tavernello il vino preferito nella batteria in degustazione! La parte divertente é stata ovviamente svelare i vini…e osservare con soddisfazione le facce di coloro che lo avevano eletto a preferito del gruppo!

C’è però anche un risvolto molto più serio dietro tutto questo. Troppo spesso chi acquisisce conoscenze nel mondo del vino assume un atteggiamento di snobismo totalmente ingiustificato verso prodotti che i luoghi comuni relegano nella parte più bassa della piramide qualitativa.

Un sommelier (ma anche un intenditore), in forza degli studi e della acquisita capacità critica, deve essere in grado di giudicare un vino in maniera totalmente libera da pregiudizi, positivi o negativi che siano. Il che é un’impresa molto più difficile di quanto possa sembrare, anche dopo diversi anni di esperienza. Nel caso specifico, un vino come il Tavernello (o prodotti simili) non é necessariamente cattivo e fatto male. Dal punto di vista della cura della produzione, quanto meno relativamente alle produzioni italiane, non ci sono dubbi sul rigore delle norme vigenti e sulla certezza di un prodotto sano. Il vino non presenta nessun difetto, non può presentarne per via proprio delle pratiche utilizzate in cantina che, se da un lato lo privano della componente emozionale e corredo organolettico, dall’altro lo rendono un vino perfettamente pulito, privo di impurità, sano, stabile.

Diventare sommelier, o dichiararsi intenditori, significa innanzitutto diventare ogni giorno sempre più curiosi. Ogni singola variazione del mercato deve essere per noi degna di nota, richiamare la nostra attenzione e arricchire il bagaglio di sensazioni e note di degustazione, in grado poi di renderci davvero capaci di valutare un vino in maniera realmente obiettiva. Inoltre, senza assaggiare i potenziali estremi di una piramide qualitativa, come potremo mai collocare i diversi vini in ordine di qualità?

Poi, soddisfatta la curiosità, alcuni vini finiranno nel lavandino, altri in padella, altri ancora ci faranno compagnia sul divano con le gambe sotto una coperta perché, alla fine, il vino migliore è quello che più ci piace.

Colline Savonesi Alicante IGT 2019 – Durin

Produrre vino in Liguria é un esercizio di volontà e tenacia, che mette a dura prova la resistenza fisica e mentale di chi lavora la terra in quelle difficili condizioni. Spese tutte le energie per la vigna, solo i più resilienti e appassionati riescono a concentrarsi per produrre vini di elevata qualità.

Passione é la prima sensazione che esce da questo vino. Un vino che ti rapisce con la sua energia, non potenza estrema, un’energia di fondo, come i bassi che suonano da una cassa, che ti entrano nel sangue e danno ritmo al momento, ti fanno sentire bene.

Arriva deciso al naso, con un bouquet ricco di piccoli frutti rossi molto maturi, senza profumi prepotenti che vogliano prevaricarne altri, e in bocca riempie il palato, avvolgendolo in maniera decisa ma, anche qui, senza spigolature fastidiose. Il finale è lungo e un’acidità perfettamente integrata lascia la bocca pronta per un altro assaggio.

Maturato in barrique di rovere francese per 6 mesi, seguiti da 3 mesi in bottiglia, questo 2019 – con l’etichetta rinnovata e di sicuro impatto – é un piacere già ora e non deluderà nemmeno nei prossimi anni.

Se ne avete una sola bottiglia, non portatelo a casa di amici per una cena (beh, quando si potrà…), gustatevelo in pochissimi, sul divano o davanti al camino, accompagnato da tapas di carne o crostini di fegatini, perché in questo caso il protagonista dovrà essere lui. Oppure fatene scorta!

Finalmente sommelier! E adesso?

E adesso si studia! Come ti diranno tutti, ricevere il diploma e indossare il tastevin rappresentano il punto di inizio per diventare davvero Sommelier. Sì, perché i 3 livelli (siano essi Ais o Fisar – in rigoroso ordine alfabetico…) che conducono all’esame finale saranno, fino a quel momento, una montagna di informazioni teoriche delle quali non saprai bene che farne. Finché, liberato dall’incombenza di serate sui libri, potrai finalmente goderti la parte piacevole di questi studi, ossia la pratica. E, dando sfogo alla fantasia e alla curiosità, sarai finalmente in grado, assaggiando e ri-assaggiando, di dare un senso a tutte le nozioni apprese. “Odore di tappo? Beh si, me lo hanno descritto al corso, so perfettamente da dove arriva…” ma statisticamente é piuttosto improbabile da trovare, a meno che non si aprano parecchie bottiglie! “Il Lambrusco non mi piace!”…ma sicuro di averne assaggiati abbastanza da poterlo affermare? Al corso, se sei stato fortunato, ne hai assaggiato uno o al massimo due, eppure di lambruschi ne esistono decine.

E quindi, studiare e diventare Sommelier, a che serve? Serve perché bere e basta, anche tanto, non ti fornirà mai le basi necessarie per comprendere a pieno questo mondo, per conoscere davvero come si arriva a ciò che stai sorseggiando nel bicchiere, a percepire le sfumature tra prodotti simili. Serve, soprattutto, ad affinare i tuoi sensi e i tuoi gusti, serve a diventare un bevitore pensante, che sceglie il vino con un criterio (qualsiasi, non importa quale, l’importante é che ve ne sia uno), che segue i propri desideri e sia in grado di decifrare questi desideri, mettendo in tavola un vino che lo faccia stare bene.

Ma cosa vuol dire studiare? Per studio si intende l’approfondimento delle singole nozioni apprese al corso per Sommelier, vuol dire cercare di conoscere quanto più possibile delle infinite sfumature di questo fantastico mondo. Il Lambrusco che davvero pensavi di non voler bere? Provane un po’, di diversi produttori e delle diverse tipologie, provando ad abbinarli con cibi differenti, dai più economici a quelli di fascia di prezzo più elevata (in questo caso il portafogli sarà comunque salvo!), sono quasi certo che l’idea iniziale sarà accantonata!

Le degustazioni aperte al pubblico, dalle grandi manifestazioni come il Vinitaly o il Merano Wine Festival a quelle più piccole organizzate da diverse organizzazioni o associazioni sono gli appuntamenti irrinunciabili per il nostro “studio”, sia durante il corso che dopo. Questi eventi sono una fonte preziosa di approfondimento su specifici argomenti – per geografia, per vitigno, per tipologia, e molto altro – mettendo a disposizione un elevato numero di bottiglie e, spesso, l’impagabile incontro diretto con il produttore.

Ma cosa più importante, al corso le degustazioni sono svolte in gruppo, esercizio fondamentale per tarare i propri sensi. Cercare di mantenere questa abitudine, con amici o compagni di corso, é davvero importante per conservare lo spirito dello studio e stimolare la curiosità, con continui confronti e, soprattutto, per divertirsi imparando.

Ovviamente queste considerazioni valgono per chi si avvicina al mondo della sommellerie senza esperienze nel settore. Eppure, spesso, persone che lavorano quotidianamente nel mondo del vino, partecipano ai corsi per Sommelier proprio per colmare quelle lacune teoriche che, unite all’esperienza pratica acquisita sul campo, permetteranno loro di lavorare meglio di prima.

A Mendoza…é vietato bere

Ah, Mendoza, la capitale del vino argentino… Già pronunciarne il nome – con la Z morbida, in spagnolo! – mi provoca un sussulto che mi spinge a prepare i bagagli e partire di nuovo! Ogni appassionato di vino che si rispetti ha sicuramente Mendoza sulla lista delle destinazioni desiderate (o meglio, agognate, visto che per noi europei non è proprio dietro l’angolo).

Sono ormai passati alcuni anni dalla mia visita, ma i ricordi sono ancora vividi. Situata ai piedi delle Ande, a due passi dai 6.900 metri dell’Aconcagua (la vetta più alta dell’intero continente americano), separata da Buenos Aires da 1.000 km di pampa sterminata e distante poco meno di 400 km da Santiago del Cile, Mendoza è al centro della maggiore zona di produzione vinicola del Paese e una delle più importanti al mondo.

Nei (troppo pochi) giorni passati qua, le giornate passano tra una visita ad una cantina e l’altra, senza fretta, godendosi il tempo in ognuna di esse, come comandano i ritmi argentini. Si beve rosso, Malbec e Cabernet Sauvignon sopratutto, vini decisi, strutturati, con tanto legno, da accompagnare con della splendida carne argentina.

Come concludere la visita a Mendoza, l’ultima sera, se non trovando un bel ristorante in cui gustarmi carne e vino? In compagnia di una ragazza australiana conosciuta nel pomeriggio (cibo e vino si gustano meglio se condivisi dopotutto, o no?) ci accomodiamo al tavolo di un elegante ristorante, perdiamo qualche minuto per consultare il menu e, soprattutto, per individuare una bottiglia ricercata. Trovata, ordiniamo!

“Lo siento senor, después de las 8 de la tarde no podemos vender alcohol”… Cosa??? E perché?? Perché mancano 12 ore all’apertura dei seggi per eleggere il nuovo presidente e, per legge, è vietata la vendita di alcolici su tutto il territorio nazionale (in Argentina votare è obbligatorio, e il divieto di vendita di alcolici pare limiti potenziali “dimenticanze” di recarsi ai seggi). “Ma noi non siamo argentini!” provo a spiegare al cameriere, mostrando i passaporti. Nulla, inflessibile! Provo anche a fargli notare – il più delicatamente possibile – che non siamo nel Paese più ligio al rispetto delle regole, che siamo in un angolo del ristorante, che siamo lì apposta per bere del vino…Non c’è niente da fare, il cameriere è incorruttibile.

Tutto il giorno a fantasticare su cibo e vino, chiacchiere e buona compagnia, sfumati nel nulla davanti a una delizia nel piatto…accompagnata da acqua!

La mattina seguente, all’alba, l’autobus che mi porterà verso nord é pronto a partire. Per fortuna nel tragitto passo davanti alla fontana da cui sgorga vino – si, vino – in centro città. Meno male, almeno l’ultima immagine di Mendoza sarà legata al vino e non all’acqua della sera prima!